Facendo zapping in un pomeriggio uggioso di un recente sabato mi sono imbattuto su Rai Storia in un documentario in inglese sul capitalismo.
Una prima cosa mi ha colpito in particolare: che la migliore descrizione che veniva segnalata del capitalismo era il “Manifesto del Partito Comunista” scritto da K. Marx e F. Hengels nel 1848.
Me lo sono quindi letto, e devo ammettere che sembra di leggere un testo dei giorni nostri che descrive la società moderna, soprattutto nel capitolo I “Borghesia e proletari” dove la borghesia viene legata a doppia mandata al proletariato mediante il concetto di salario.
La seconda cosa che mi ha colpito è l’ipotesi che la crisi del 2008 non sia stata causata dai sub-prime (che erano una conseguenza) ma dalla perdita di valore degli stipendi.
Parto da questo punto per iniziare una riflessione.
Dall’inizio della crisi industriale fino agli anni 90 l’era industriale moderna ha permesso alla popolazione dei paesi occidentali di migliorare progressivamente le condizioni economiche e di vita. Chi non si ricorda la “scala mobile” negli stipendi, che aveva come scopo il mantenimento del potere d’acquisto?
Lo stipendio che manteneva il potere d’acquisto permetteva alla persona comune di mantenere un discreto tenore di vita, vedere un futuro sempre roseo e permettersi di consumare le nuove invenzioni che ogni giorni il capitalismo gli proponeva come necessarie (prima la televisione, poi la lavatrice, poi la lavastoviglie, poi il microonde, poi la macchina, poi lo smartphone, etc etc).
Il capitalismo infatti si basa sul consumo delle masse e sulla trasformazione del tempo del lavoratore in merce di scambio. Alla fine ognuno di noi vende il suo tempo e le sue competenze per un salario. E il nostro datore di lavoro si arricchisce grazie a questa compravendita, altrimenti non ci assumerebbe.
Il capitalismo, del resto, è un oggetto strisciante e shiftante, nel senso che quando va in crisi, la crisi viene spostata da regione in regione e da settore in settore. Basti pensare all’ultima crisi globale del 2007-2008: la crisi scoppiò in USA e arrivò in pochissimo in tutto il mondo. La crisi iniziò nel settore bancario, venne shiftata nel settore statale, per poi passare ai cittadini ad esempio in Europa sotto forma di maggiori tasse e austerity. Quindi un problema nato in USA, nel settore bancario, genera conseguenze per i cittadini in Europa.
Questa crisi spostata dalla regione di origine e di settore, sta causando un problema che mina le basi stesse del capitalismo: la riduzione degli stipendi e del potere d’acquisto.
La disparità tra ricchi e poveri da statistiche presentate più volte sta aumentando, tanto è vero che tutti sanno che l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza. La classe media, vero motore del capitalismo, sta perdendo capacità di acquisto (e posti di lavoro) e questo mina alla base il sistema industriale in cui viviamo e il potere della classe dirigente ad essa associato. Nessun lavoro vuol dire nessuno stipendio, quindi niente consumi, quindi niente ricchezza per la borghesia, quindi niente capitalismo.
Questo meccanismo di riduzione dei consumi è partito negli anni ’70 negli USA e gli americani, accortisi del problema, visto che ormai avevano già indottrinato la gente comune a risparmiare pochissimo e spendere il possibile (si stima che l’americano medio risparmi il 5% del suo reddito), hanno inventato le carte di credito. Credito virtuale per permettere di spendere ancora di più e spingere l’economia oltre ogni limite.
Peccato che il vento non soffia sempre a favore e prima o poi una crisi arriva. Ma a differenza del passato, dove la crisi avveniva per mancanza di qualcosa, nel capitalismo arriva per eccesso di produzione. La crisi arriva perché la borghesia arriva al punto di voler arricchirsi oltre il limite di saturazione. E quindi cosa succede quando c’è una crisi: parte della borghesia viene spazzata via, si cercano nuovi mercati e nuovi modelli oltre che nuovi consumatori e una nuova borghesia emerge, ancora più agguerrita e interessata all’ottimizzazione e al profitto.
Così è stato per la crisi dei subprime. Il meccanismo si è inceppato e la macchina ha frenato bruscamente per una crisi che prima era di subprime usa e poi di debito pubblico europeo.
Stando in Italia, gli ultimi eventi vanno contro il principio del capitalismo. Mentre le culture anglosassoni (inglese e americana) stanno pensando a rivalutare la classe media (vedi la campagna di Hillary Clinton) e a porre l’attenzione sull’occupazione e sull’aumento degli stipendi, da noi giochiamo tutto sui sentimenti e la fiducia.
Non capiamo che certe modifiche al mondo del lavoro (riduzione dei diritti, riduzione degli stipendi, mobilità, riduzione degli occupati) visto che sono strutturali (anche la produzione industriale è strutturalmente compromessa) porteranno inevitabilmente a condizioni economiche peggiori. I nostri padri vedevano davanti un futuro migliore, noi peggiore per noi o per i nostri figli. Va bene fino a che dietro ci sono i genitori o i nonni che danno una mano, ma le future generazioni quando si troveranno a dover costruire una famiglia in condizioni peggiori delle presenti, si troveranno in difficoltà.
Quindi è necessario che si cambi la mentalità (trasformazione della società nel modello americano, ovvero prendi 10 spendi 11) o si cambi la capacità di spesa (riduzione dei comfort). In entrambi i casi il passaggio deve essere fatto in maniera sostenibile, il che vuol dire che se la contrazione del mondo del lavoro diventerà eccessiva e strutturale, verrà comunque pagata dallo stato: in sanità, in polizia e se le cose peggioreranno drasticamente, in eventi di rivolta.
Forse dovremmo capire anche noi latini che il lavoro è tutto, se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, se vogliamo competere nel mondo, se vogliamo capire che il domani si costruisce oggi con il lavoro di oggi e non con le belle parole di ieri.