Questo sondaggio aiuta perfettamente a capire quanta strada in retromarcia sia stata fatta dall’Italia in tema di considerazione del concetto Europa. Ad oggi gli italiani, padri fondatori dell’Unione Europea e che ritengono cosa buona questa aggregazione, sono solo il 39%, contro l’80% dei tedeschi, degli olandesi e degli spagnoli. Definisco allarmante questo sondaggio, che conferma oltretutto che ai Di Maio e ai Salvini non siamo arrivati per caso.
Il grafico sopra può spiegare chiaramente il perché al Nord si è votato Lega e al Sud M5S e di come si cerchi di trovare il capro espiatorio nell’Unione Europea. E’ impressionante constatare come al Sud il tasso di disoccupazione, sia schizzato ai massimi della crisi del 2008. Gioco facile quindi per Di Maio, quando propone il reddito di cittadinanza. Al Nord il problema viene in pratica ribaltato, ma trovando sempre nell’Europa il colpevole in merito all’eccessivo carico fiscale.
Purtroppo le cause vanno ricercate nel forte debito pubblico e soprattutto nei cambiamenti strutturali dell’economia europea, all’indomani della caduta del comunismo. Pensiamo al peso che hanno adesso paesi come Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia sull’economia tedesca, una volta la principale committente dell’Italia. In questo contesto, oltretutto, l’Italia è fra i paesi europei che hanno visto una delle peggiori redistribuzioni di ricchezza negli ultimi quindici anni. Pertanto non dobbiamo meravigliarci se la maggioranza del Bel Paese, la pensa diversamente dai tedeschi e dagli ottimisti. In Italia ci sono molti requisiti che fanno pensare ad un’uscita dalla Moneta Unica, sotto il profilo economico-sociale, il quale è strettamente correlato alla dinamica del debito pubblico. Basti pensare che nel corso degli ultimi 15 anni, nonostante un deficit primario positivo, ormai presente dagli anni ’90 e tassi in costante discesa, il debito pubblico è continuato a salire dal 115% al 132%. Un sintomo di insostenibilità più evidente di così non riesco a trovarlo.
Il buon attivo commerciale poco riesce ad incidere, difronte al dramma della domanda aggregata interna italiana (conseguenza dell’alto debito), che pesa ovviamente come un macigno sulla crescita complessiva del Pil. Per meglio dire, quindi, siamo entrati da tempo dentro un avvitamento PIL/DEBITO PUBBLICO, dal quale è impossibile uscire, se non attraverso shock sistemici, dal quale sarà difficile mettersi al riparo se non attraverso una pianificazione ben ponderata e per niente improvvisata. Fiscal compact e rialzo dei tassi di mercato, sembrano essere le più classiche gocce che faranno traboccare il vaso.
Qui di seguito voglio riportare, per poi commentare, un passaggio molto importante riguardo ad uno
scenario di uscita dall’Euro, nel quale si vuol dimostrare come l’Italia sia troppo sistemica e in grado di trattare alla stessa maniera sul tavolo dei Paesi che contano.
Ci sono segni che in Germania si pensa all’Europa come a un Grande Spazio Tedesco. Ma ci sono anche segni che, dopo la crisi e l’accelerazione sul Fiscal compact, si è cominciato a pensare in Germania a una restrizione, volontaria o forzata, dell’area di questo Grande Spazio.
Quest’area verrebbe ristretta a un nucleo di sei paesi (Germania, Francia, Austria, Belgio, Olanda, Lussemburgo) mentre gli altri resterebbero in uno spazio comunque dipendente da quella centrale. Tra il 2011 e il 2012 il professor Werner Sinn, autorevole economista tedesco, scrisse due articoli sul Financial Times proponendo l’introduzione di procedure di «uscita controllata» dallo spazio dell’euro, menzionando pudicamente che l’uscita avrebbe anche potuto essere successivamente rovesciata con un rientro. Nel 2015 il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, propose l’uscita «concordata» alla Grecia, proposta che non venne accettata.
In realtà non può esserci nessuna uscita controllata. La ragione è semplice. I mercati finanziari globali possono essere inibiti da una politica assertiva della Bce, come accadde nel 2012 grazie al «whatever it takes», ma non possono essere guidati totalmente. Basterebbe cominciare a parlare di «uscita controllata» per avere tre effetti immediati sul paese uscente.
Primo: una fuga di capitali, probabilmente diretti in gran parte verso la Germania.
Secondo: un’ondata speculativa al ribasso sui titoli del debito sovrano con relativo impatto sui titoli bancari. E se anche ci fosse una promessa di interventi di sostegno, questi non potrebbero che essere temporanei. L’opinione pubblica tedesca si rivolterebbe all’idea che la Bce si possa accollare masse ingenti di titoli svalutati e destinati a essere convertiti in moneta svalutata. Sarebbe una situazione non sostenibile, che annullerebbe di fatto qualsiasi promessa precedente.
Terzo: gli euro italiani (se fosse l’Italia a uscire) si demonetizzerebbero rapidamente, nel senso che nessuno accetterebbe più una somma denominata in euro la cui sorgente fosse una banca italiana.
Questi tre processi produrrebbero una pesante crisi prima valutaria e poi economica: forte inflazione e disorganizzazione delle supply chains.
Non vi è dubbio che la dirigenza tedesca pensi che la propria economia sia una fortezza inattaccabile e che i problemi li avrebbero solo coloro che uscissero. Forse qualcuno a Berlino pensa che sarebbe possibile trarne addirittura vantaggio, facendo shopping di imprese appetibili a prezzi stracciati.
Questa è una pericolosa illusione.
Innanzitutto alla svalutazione della moneta del paese uscente si aggiungerebbe un’ulteriore rivalutazione dell’euro tedesco, come conseguenza di notevoli afflussi di capitali dalla periferia europea. E questo peggiorerebbe la competitività di Berlino. Si metterebbe così in moto un circolo vizioso tra crisi finanziaria, crisi di reddito e occupazione e disorganizzazione delle supply chains europee con centro tedesco. Tra l’altro, se il segmento italiano delle supply chains tedesche si disorganizzasse, questo creerebbe ulteriori problemi alla Germania, perché, data l’eccellenza tecnica italiana, uscirebbero parti del segmento difficilmente sostituibili.
L’uscita dall’euro non danneggerebbe quindi solo l’economia italiana. Come abbiamo visto, le economie di Italia e Germania sono collegate da molteplici interrelazioni. Quella produttiva che ha vincolato, in modo sempre più stretto, negli ultimi decenni di globalizzazione, pezzi rilevanti dell’industria manifatturiera di grande eccellenza tecnica, soprattutto al Nord, con la piattaforma industriale tedesca. Verrebbe inoltre a mancare il vantaggio di cui l’economia tedesca ha goduto grazie all’appartenenza comune all’euro e che gli economisti tedeschi, incredibilmente, ignorano: apertura di mercati e afflussi di capitali e quindi grande liquidità del sistema bancario tedesco, senza pagare alcun prezzo in termini di rivalutazione della moneta. La fuga di capitali che dal 2011 ha fatto affluire denaro dai paesi dell’Europa meridionale, in particolare dall’Italia, non ha provocato alcuna rivalutazione dell’euro – per così dire – tedesco. Questo, insieme all’ampliamento dell’interscambio commerciale intra-europeo, è uno dei grandi vantaggi di cui la Germania ha goduto con l’appartenenza all’euro.
Ebbene, noi pensiamo di andare a trattare al tavolo dell’Ue, forti dell’alto debito e del fatto che siamo il terzo Paese più grande dell’Eurozona?
Prima di tutto è doveroso sottolineare che a quel tavolo non saremmo rappresentati dai De Gasperi di turno, del quale, nel 1947, nonostante un’apparente sconfitta al trattato di pace, il suo discorso passò alla storia ponendo le basi per la rinascita dell’Italia.
Questa volta la classe politica scarseggia, come ha fatto da 25 anni a questa parte, a tal punto che possiamo tranquillamente metterci tranquillamente in posizione atta a prendere calci nel sedere, già prima che ciò accada.
Chi non conosce la resilienza del popolo tedesco, difronte a questi temi, pensa che basti un semplice pugno sul tavolo, con la minaccia di uscire dall’Euro.
La Germania è vero, ha beneficiato dell’Euro, come nessuno ha fatto, ma non per questo è da definirsi vulnerabile a cambiamenti sistemici del Vecchio Continente.
La forza dell’economia tedesca non è certo il frutto della competitività valutaria, bensì la capacità di adattarsi alle esigenze di mercato, attraverso prodotti di alta qualità e tecnologicamente evoluti.
Basti pensare che negli anni ’70 i lavoratori tedeschi, per frenare l’inflazione, furono disposti a rinunciare alla paga degli straordinari semplicemente per l’interesse nazionale. Non mi risulta che qui in Italia, nello stesso periodo, si sia sconfitto l’inflazione attraverso sacrifici collettivi.
In caso di uscita dell’Euro da parte dell’Italia, la Germania, dopo qualche rinuncia temporanea, se ne farebbe una ragione, come del resto se la farà riguardo ai dazi che vuole introdurre quella cima di intelligenza che si chiama Trump, ma su questo parleremo prossimamente.
Detto ciò, credo che i numeri parlino in favore di un’uscita dell’Euro, da parte dell’Italia, Questo ovviamente non avverrà in tempi molto ravvicinati, ma tali da rendere progressivamente percepibile l’evento.
Auguri pertanto a tutti quegli ottimisti, più per speranza e convenienza, anziché per oggettiva realtà.